Tragedia fabbrica in Bangladesh: fotografati abiti con il marchio Benetton. L' azienda italiana aveva escluso la sua presenza nella fabbrica di Rana Plaza. Gli operai, costretti a lavorare nonostante le crepe dell' edificio, ricevevano una paga di 30 dollari al mese per 12 ore al giorno

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Ennesima catastrofe in Bangladesh per il crollo della fabbrica Rana Plaza a 30 km da Dhaka, avvenuto il 24 aprile scorso, che ha causato la morte di oltre 620 operai, 2000 feriti e molti dispersi che lavoravano per i grandi marchi della moda internazionale. L'edificio Rana Plaza ospitava 5 fabbriche di abbigliamento dove migliaia di operai ogni giorno lavoravano stipati in condizioni disumane: 12 ore al giorno per 30 dollari ( circa 40 euro ) al mese.
Loro stessi avevano denunciato le preoccupanti crepe all'interno dell'edificio, ma gli era stato intimato dai datori di lavoro di restare nella fabbrica.
La Campagna Abiti Puliti (Clean Clothes Campaign), associazione internazionale nata per assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori e lavoratrici del tessile, sta intervenendo denunciando i grandi marchi implicati tra cui Primark, Mango e l'italiana Benetton, quest'ultima in un primo momento aveva dichiarato di non aver legami diretti con le fabbriche del Rana Plaza.
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L'agenzia AFP ha fotografato ( vedi foto a destra ) tra le macerie alcune t-shirt con etichetta “United Colors of Benetton”.
Inoltre Abiti Puliti è in possesso di una copia di un ordine d'acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave, una della 5 fabbriche dell'edificio.
La Campagna Abiti Puliti sta facendo pressione sull'azienda veneta chiedendo di assumersi le proprie responsabilità su queste tragiche morti sostenendo i familiari delle vittime. “Aziende importanti come la Benetton hanno la responsabilità di accertare a quali condizioni vengono prodotti i loro capi” ha dichiarato Deborah Lucchetti - coordinatrice e referente italiana della Campagna Abiti Puliti - “e di intervenire adeguatamente e preventivamente per garantire salute e sicurezza nelle fabbriche da cui si riforniscono”.

Il crollo del Rana Plaza è una delle tante tragedie avvenute nel sud est asiatico: ricordiamo l'incendio della fabbrica pakistana Ali Enterprises dove lo scorso settembre sono arsi vivi 300 lavoratori per la mancanza di uscite di sicurezza e l'incendio di novembre della Tazreen Fashions in Bangladesh dove hanno perso la vita più di 100 operai che cucivano per C&A, Carrefour, Kik e Walmart.
Il tessile è un settore redditizio e le aziende occidentali di abbigliamento sono più interessate a massimizzare i profitti che alla sicurezza e ai diritti dei lavoratori. Il sud-est asiatico è il più grande esportatore di prodotti tessili al mondo, come possiamo notare dalle etichette che ogni giorno indossiamo.
Anche i consumatori spesso sono responsabili e complici inconsapevoli di questo processo in cui, attraverso l'acquisto di abbigliamento, contribuiscono a mantenere in schiavitù i lavoratori che cuciono e confezionano i nostri abiti per pochi dollari al mese.
Come consumatori consapevoli possiamo sostenere la campagna firmando la petizione online che chiede che i lavoratori in Bangladesh siano tutelati da norme di sicurezza più severe.

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